Metaverso perché quello di Zuckerberg è tutto sbagliato

Metaverso perché quello di Zuckerberg è tutto sbagliato


Le origini del termine “metaverso”, ad esempio, non vanno ricercate nella tecnica, ma nella letteratura.
Metaverso, innanzitutto, è una parola inventata da uno scrittore, Neil Stephenson, nel suo libro Snow Crash del 1992. Negli anni successivi molti studiosi si sono poi appropriati di quella parola. Il caso più emblematico è quello di Stephen Villa Weiss che, nel suo libro (In)visible: Learning to act in the Metaverse, parla di metaverso come di una logica spaziale, cioè della possibilità offerta dall’informatica di non usufruire unicamente delle solite interfacce quali schermo, tastiera o mouse, ma di disporre le informazioni in maniera spaziale, giocando sulla compresenza di spazio virtuale e fisico. Il libro di Villa Weiss è di 15 anni fa, un momento storico in cui Zuckerberg nemmeno immaginava il Metaverso. Questo tipo di elaborazione è stata però spazzata via dalla conferenza stampa con cui Mark Zuckerberg nel 2021 annunciò la sua idea di metaverso: fu come se tutto quello che avevamo cominciato ad apprendere, a studiare e a monitorare fosse stato accantonato perché un imprenditore doveva, di fatto, vendere i suoi Oculus. Questo per me è sintomo dell’’incapacità di leggere i fenomeni digitali senza un approccio umanistico, affidandoci completamente a un’idea puramente funzionalista: cosa può fare questa tecnologia? Questo approccio è veramente limitante, specialmente se si pensa all’impatto che le tecnologie hanno nelle nostre vite”.

Come ha reagito finora il mercato alla narrazione di Mark Zuckeberg?
Fortunatamente proprio il mercato, che doveva essere il suo punto forte, sta stroncando l’idea di Meta. Ultimamente ho anche sentito diversi rappresentanti di questa azienda sostenere di non aver mai inteso il metaverso solo come realtà virtuale, ma come realtà mista, o realtà aumentata. Anche Meta, insomma, sembra aver cambiato il suo approccio alla tecnologia. Inoltre, ora stanno anche dicendo che il metaverso non dovrebbe essere un unico universo, ma un insieme di tante piattaforme e di tanti siti tra cui sarà possibile spostarsi”.

La copertina di “La zona oscura”

La copertina di “La zona oscura”

Fa un po’ sorridere sentire parlare di interoperabilità da parte di un’azienda i cui ambienti online ne sono di fatto la sua negazione.
Il punto è che Meta ha trovato in Matthew Ball il suo cantore ideale. Ball ha svolto una ricerca meravigliosa ed è autore di un libro incredibile (The Metaverse: And How It Will Revolutionize Everything, ndr), che è però anche molto monodirezionale. Nel senso che è la glorificazione del modello di Zuckerberg, un approccio che nella pratica non può funzionare. L’interoperabilità, in questo contesto, è ormai un termine che non viene più usato perché si è capito che tra software chiusi, questioni di privacy e vulnerabilità ai cyberattacchi, l’interoperabilità non è tecnicamente possibile. C’è anche, e non in secondo piano, un discorso di insostenibilità dell’operazione dal punto di vista dell’impatto climatico. Tutto questo rende quell’idea impossibile e Meta stessa sta provando a ridefinirla. A mio parere, è vero che stiamo andando verso una dimensione informatica dello spazio, ma non ci arriveremo solo con i visori o con la sola computer-generated imagery (Cgi). Quello che vedremo sarà piuttosto un’ibridazione di tecnologie molto diverse che comprenderanno l’Internet of Things (IoT), la mixed reality, la aumented reality, in qualche caso specifico anche la virtual reality, certamene la Cgi, i vari assistenti virtuali come Alexa, Siri, la nuova sensoristica e il cloud.



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di Philip Di Salvo www.wired.it 2023-12-19 05:50:00 ,

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